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di Nicola Brizio

#1 IL PAESE DELL’ONORA IL PADRE E LA MADRE

Dunque si era detto conflittualità.

E se conflittualità deve essere tanto vale partire col botto analizzando una disputa che tocca inevitabilmente ognuno di noi ma che per questioni di quieto vivere resta latente nella maggior parte dei casi.

Iniziamo con un presupposto che il lettore dovrà tenere bene a mente anche nei prossimi appuntamenti: la conflittualità è una forma di rispetto.
Qualsiasi rapporto conflittuale che possa definirsi tale richiede grandi doti di resistenza e perseveranza ed è questo il motivo per il quale spesso tendiamo ad essere estremamente accomodanti anche in frangenti dove il lassismo non paga, in altre parole troppo spesso stiamo alla larga dalla conflittualità perché siamo pigri.

Entrare in conflitto con qualcuno significa riconoscergli un ruolo cruciale che merita il nostro tempo e le nostre energie da utilizzare a piene mani nello scontro che, non mi sembra nemmeno il caso di specificarlo, rimane squisitamente dialettico.

Come ogni conflitto che possa definirsi tale anche quello fra genitori e figli è bidirezionale e parte dall’inconscio.

Non sto a perdere tempo sulle origini delle tensioni da Edipo in poi, oggi mi interessa concentrarmi sulla situazione di casa nostra dove la conflittualità (e abbiamo visto quanto è importante) rasenta lo zero assoluto.

Parlare di scontro tra figli e genitori significa mettere la lente d’ingrandimento su un gap generazionale che non è mai stato così ampio.
I genitori, nella maggior parte dei casi, non sono minimamente in grado di analizzare il mondo dei loro figli che è cambiato a una velocità sempre crescente e nel quale hanno grandi difficoltà a trovare riferimenti quando tentano di rapportarlo con quello che è stato il loro.
Impiegati nel tentativo di sopravvivere e far quadrare i conti anziché immergersi nel mondo dei loro pargoli (che rimangono tali fino a quarant’anni) i genitori preferiscono abbandonarsi al più classico dei “sò ragazzi…” alzando subito bandiera bianca e delegando il più possibile.
Delegare è la parola chiave: “ci penseranno le scuole, gli oratori, i boyscout a capirli, noi siamo vecchi e non ci riusciamo.”.

Il grande passo per i genitori deve essere quello che porta dal “delegare” al “domandare” e all’ “ascoltare”, il mondo dei loro figli è complesso ma può essere capito almeno in parte.

Il rovescio della medaglia è la posizione spesso acritica dei figli nei confronti dei genitori che per lo stesso schema fin troppo semplicistico vengono visti troppo spesso come gente dell’altro mondo incapace di comprendere le istanze e quindi, in qualche maniera, da compatire.
È facile prendersela coi vecchi e coi boomers, molto più difficile è entrare nel merito delle colpe individuali dei propri genitori che non possono essere infallibili solo perchè tali.

Un luogo comune fin troppo diffuso vorrebbe disegnare gli italiani come un popolo di eterni mammoni, non sono d’accordo.

L’Italia è semplicemente un paese che si sta appiattendo, per la salvaguardia del quieto vivere del quale si parlava poc’anzi, su posizioni acritiche riguardo a qualsiasi cosa.
Siamo passati da “ogni scarrafone è bello a mamma soja” a “ogni mamma soja è bella a scarrafone”.

Finisce che la resa dei conti viene posticipata all’infinito finché i genitori, o i figli, muoiono e ci si accorge di non essersi detti tutto quando ormai è troppo tardi.

Io non ho soluzioni alla questione ma se ne esiste una sono certo che passi dal dialogo, che già nella sua etimologia contiene una conflittualità gentile: dià è un suffisso greco che indica la massima distanza e logos che significa parola.

Ma attenzione, conflittualità non significa mutismo, né muro contro muro, sarebbe la sconfitta della premessa fatta all’inizio: smettere di dialogare significa non riconoscere più all’altro un ruolo e farlo tra genitori e figli significa essere un po’ ingrati.

Un pensiero su “PROLITALIANS”

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