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di Nicola Brizio

#2 LA CONFLITTUALITÀ FINE A SÉ STESSA E LA POLITICA DELLA PERCEZIONE

La pigrizia dei più ci ha sottratto negli anni gran parte degli spazi conflittuali che fino a cinquanta o sessant’anni fa venivano dati per scontati anche dalle più tiepide massaie democristiane.
Solo un argomento sembrava essere sopravvissuto al placido appiattimento ad ogni costo che ha caratterizzato gli anni ’80, i ’90 e i primi 2000 per poi rinvigorirsi via via che la crisi mordeva le caviglie del vecchio continente fino a occupare gran parte dei palinsesti televisivi.

Sto parlando ovviamente della politica che è conflittuale a prescindere e certamente lo è tanto più nella sua declinazione democratica dove l’alternanza e quindi la contrapposizione tra idee diverse sono alla base delle regole di gioco.

Non è forse vero che tutta la storia dell’umanità è storia della lotta di classe? Schiavi in conflitto coi tiranni, contadini in conflitto con i feudatari, operai in conflitto coi padroni.
Questi che fino a poco fa sembravano dati di fatto sono stati messi in crisi dall’arrivo, una manciata di giorni fa, di Mario Draghi sulla scena politica di un paese che ormai sembra parlare di ministri e sottosegretari più di quanto non parli di calcio e di sesso.

L’approccio da tuttologo dell’uomo medio (e con uomo medio intendo quello che Pasolini definisce magistralmente per bocca di Orson Welles nel cortometraggio La Ricotta: “…un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista…”) peraltro è lo stesso.

La politica è diventato l’argomento di massa per eccellenza, ognuno rivendica il diritto ad avere la propria opinione illudendosi di potersene fare una prêt-à-porter sfruttando il bombardamento di tribune che giunge ormai da tutti i canali del decoder.
Eppure, come si evince dalle parole della stragrande maggioranza dei leader di partito, la conflittualità tra le fazioni sembra rasentare lo zero da quando è arrivato l’ex numero uno della BCE.
Non entro nel merito della situazione, lo stesso Mattarella aveva chiesto di smorzare i toni e mi sembra evidente che tutti o quasi, con riposizionamenti spesso repentini e impronosticabili, si muovano in quella direzione.

Quello che mi interessa è capire come si è arrivati al punto di dover di fatto commissariare la politica a causa di una conflittualità fine a sé stessa ormai trasformata in una specie di scontro fra tribù causa di un evidente immobilismo che il paese non può permettersi tanto più in un momento come questo.

In Italia, nel corso degli ultimi quindici anni, si è assistito a una progressiva e sempre crescente polarizzazione delle opinioni culminata in schemi mentali rigidissimi, talmente rigidi da non poter più essere modificati nemmeno da chi li ha imbastiti pena l’etichetta di voltagabbana.
La coerenza da valore apprezzabile e fondamentale si è trasformata, per mancanza di elasticità mentale, in un progressivo arroccamento acritico nella sicurezza posticcia delle proprie opinioni da difendere sempre e comunque.

In parole povere abbiamo delle idee ma non sappiamo più pensare.
Tra le due cose c’è una distanza siderale come insegna Galimberti: le idee per non fossilizzarsi e diventare principi vanno periodicamente messe in questione e sottoposte a verifica.
Questo significa pensare: domandarsi se le proprie idee sono ancora valide mano a mano che i contesti e le situazioni nelle quali ci muoviamo cambiano.

La conflittualità fine a sé stessa che citavamo prima, quella che deriva dalla polarizzazione, non può essere considerata sana perché è così ingessata da perseguire come unico risultato auspicabile quello di avere ragione sull’altro.
Non si dibatte per ottenere qualcosa ma solo per avere ragione.
Di qui nascono termini orripilanti nella vulgata comune e ancor più beceri quando applicati al dibattito politico: “asfaltare”, “zittire”, “rampognare”, “umiliare”.

Come siamo arrivati a questo punto? Mi duole parlarne su un blog in attesa di andare in onda alla radio questa sera ma i media hanno fiutato presto l’interesse sempre crescente nei confronti della politica e hanno trasformato il dibattito in un reality show dove a pagare, ovviamente, sono solo i contenuti sensazionalistici.

L’opinione moderata, il tentativo di entrare nel merito delle questioni, l’ipotesi che nessuna soluzione possa essere quella perfetta né dare frutti immediati sono elementi che non giovano alla sfrenata corsa allo share e che quindi vengono trattati come appendici marginali da chi porta la politica nella casa degli italiani quando invece dovrebbero rappresentare il fulcro del confronto.

Finché l’informazione sarà vista come un’azienda e non come un servizio al cittadino questa situazione non potrà cambiare e addirittura gli stessi politici saranno costretti ad adattarsi vertendo sempre più verso quella che io chiamo politica della percezione e cioè quella che non risolve i problemi del paese ma si limita ad amministrare i desideri più miopi e irrazionali degli elettori.

Un esempio su tutti: da ogni parte ultimamente sembra alzarsi unanime la richiesta di maggiore sicurezza nelle nostre città.
Intendiamoci, niente di strano se consideriamo che ogni giorno i TG aprono con notizie che riguardano accoltellamenti, arresti e femminicidi.
Quello che non fanno i TG, invece, è informare i cittadini del fatto che il paese è ogni anno più sicuro e le statistiche riportano un calo progressivo e costante di tutti i reati.

D’altronde voi guardereste mai un reality dove non succede assolutamente nulla di eclatante e i concorrenti sono in tutto e per tutto uguali a voi?

Questione di share ovviamente, è la politica della percezione.

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