#3 L’AUTOCRITICA PREVENTIVA E L’ASSOLUTIZZAZIONE DELLE ESPERIENZE
Della percezione abbiamo detto la settimana scorsa.
L’errore da non commettere, a questo punto della nostra indagine sulla conflittualità, è credere che il conflitto vada sempre e soltanto indirizzato all’esterno.
Il conflitto non può essere franco, né sincero, né utile se non parte da un conflitto interiore o se preferite da un auto-conflitto per identificare il quale possiamo parlare di autocritica preventiva.
Anche nella conflittualità più aspra occorre tenere a mente che l’altro potrebbe avere (come nella splendida definizione di tolleranza data dal Prof. Emanuele Severino) “un gradiente di verità superiore al mio” e qui si ripresenta il discorso fatto in precedenza secondo il quale arroccarsi sulle proprie posizioni alla lunga non paga se non nella gara a chi ha la testa più dura.
Confliggere dopo una attenta autocritica preventiva significa presentarsi al duello con le pistole cariche.
Da dove partire però? Appurato che la percezione inquina la realtà dei fatti occorre fare un ulteriore passo indietro per tornare al perimetro dove la percezione si manifesta vale a dire l’esperienza.
Ogni cosa che sta tra la nascita e la morte dell’uomo è esperienza.
Recuperando il concetto Heideggeriano di essere-nel-mondo notiamo come le nostre esperienze quotidiane possano entrare in contatto e a volte in collisione con quelle dell’altro questo perché ognuno di noi sta nel mondo non semplicemente occupando uno spazio fisico, come una sedia o una forchetta, ma interagisce col mondo stesso e con gli altri.
La nostra tendenza a assolutizzare le esperienze non giova in alcun modo alla già di per sé complicata impresa di individuare la verità.
Ma cosa significa assolutizzare l’esperienza? Si tratta di un pericoloso esercizio di semplificazione che pretende di interpretare la realtà basandosi sull’assunzione della conoscenza individuale come assioma valido per tutti.
Questo modus cogitandi genera una serie di elementi che intossicano il dibattito conflittuale primo fra tutti il pregiudizio.
Che cos’è il pregiudizio se non la peggiore delle assolutizzazioni esperienziali?
“Gli impiegati di quell’ufficio non si sono occupati con sufficiente dovizia del mio problema quindi TUTTI i dipendenti di quell’ente sono fannulloni”.
“Sono stato rapinato da un ragazzo originario di quel paese dunque TUTTI quelli che ne condividono le origini sono certamente criminali o nella migliore delle ipotesi inclini al furto”.
“Quell’amministratore ha agito in modo poco trasparente quindi TUTTA la classe politica è da considerare certamente marcia”.
Potremmo andare avanti all’infinito.
Come si esce da questo teatro di deduzioni elementari che a tutto servono fuorché a entrare nel merito delle questioni?
Non se ne esce, la verità probabilmente si ferma qui ma ci proverò comunque.
Occorrerebbe, e qui sta l’impossibilità, un cambio totale di linguaggio e di orientamento.
Oggi, nel nostro modo di pensare, non c’è più un solo parametro che non sia quantitativo a discapito dell’analisi, della ricerca, della riflessione e del confronto.
La mamma chiede al bambino di dirle QUANTO la ama e così dopo l’amplesso si chiede al partner di informarci su QUANTO abbia goduto e su QUANTE VOLTE abbia raggiunto l’orgasmo.
Tutto, nei nostri riferimenti, è quantitativo.
Valutate voi se siamo in grado di invertire la rotta e smettere di trattare come assolute le nostre esperienze.
Io credo di no ma come sempre sarei felice di essere smentito.