Quando sono tornato in Italia, nel 2014, ho vissuto per un po’ di tempo a casa dei miei poi appena trovata
una soluzione decente sono tornato a stare per i fatti miei.
Quando si esce dal guscio rientrarci è un supplizio nonostante nel mio caso la situazione non fosse
particolarmente tesa.
Ho riempito casa mia con una miriade di ninnoli inutili e anticaglie di ogni genere, se dovessi farcene entrare
altre faticherei a trovar loro un posto.
Ho comprato un vecchio leggio, una fila da tre sedie pieghevoli appartenute al Cinema Massimo di Torino e
utilizzate presumibilmente negli anni ’60, una credenza del primo dopoguerra che per anni- prima di
approdare a casa mia- ha fatto bella mostra nella splendida cornice del Syslak in Via Cavour, un Grundig
decrepito, una radio a manopole non funzionante, numerosi busti di personaggi conosciuti e sconosciuti e
centinaia di libri rilegati a mano che vanno in pezzi solo a guardarli.
Perché? Perché, mi chiedo ogni tanto.
A cosa dobbiamo questa ossessione per il vintage, per il vecchio in generale, per l’appartenente ai giorni
passati, a quelli dei nostri nonni o dei nostri genitori?
Ormai il termine vintage ha travalicato il suo significato originale, è una parola che travolge i limiti del
vocabolario.
Definiamo vintage tutto quel che appartiene a un’epoca che possiamo comprendere a grandi linee tra gli
anni ’60 e gli anni ’80 (anche ’90 a voler essere di manica larga).
Ci metteremmo mai in casa un paiolo degli anni 20? Un’armatura del 1300? Un cappello piumato simile a
quello dei bravi di manzoniana memoria?
Ve lo dico io, non ce li metteremmo mai in casa.
Perché? Perché accumulando all’infinito cianfrusaglie degli anni successivi al boom noi speriamo di riuscire
a comprare l’ottimismo collettivo di quegli anni, ci illudiamo di poter recuperare tramite in feticci quella
propulsione generale mossa dalla fiducia nei confronti del futuro.
Gli oggetti contemporanei, ad eccezione del telefono che appartiene però a una categoria a parte essendo
ormai una prosecuzione degli arti superiori, ci appaiono svuotati da qualsiasi fascino perché ci riportano alla
realtà di un tempo orribile che ci è nitidamente avverso.
Percepiamo, a ragione, quelli che ci troviamo a vivere come giorno bui, giorni che precedono la fine della
storia, sappiamo che nessuno tra cinquant’anni vorrà collezionarli e riempircisi la casa perché nessuno,
davvero nessuno, sarà interessato a rivivere per un po’ questi momenti di merda servendosi di un totem
inutile.