la rubrica di Nicola Brizio
#5 ZINGARETTI, SANREMO E LA QUOTIDIANITÀ DEL CONFLITTO
A leggere ogni settimana questa rubrica che sembra girare in tondo fornendo una baraonda di spunti difficili da collegare tra loro senza mai affondare il colpo il lettore, alla lunga, potrebbe anche stufarsi.
Se vi ho tediato certamente non me ne scuso ma vi capisco e ne approfitto per fare un passo, non verso di voi ma di lato, al di fuori della teoria del conflitto, lasciando per un momento da parte quella che a qualcuno certamente sarà sembrata fuffa in odore di ’68 fuori tempo massimo.
Prendiamo un paio di situazioni impossibili da dribblare anche per il più superficiale dei qualunquisti: le dimissioni del segretario del Partito Democratico e il Festival di Sanremo e andiamo a vedere come le faccende di tutti i giorni, siano esse legate alla politica o alle canzonette, abbiano in sé un costante risvolto conflittuale a volte visibile altre meno.
Partiamo da dove il conflitto si manifesta in maniera più limpida.
Zingaretti si è dimesso, ha sbattuto la porta e ha lanciato invettive non proprio lusinghiere nei confronti dei capicorrente del suo partito colpevoli, per usare il peggior lessico da Bar Sport fatto suo un po’ a sorpresa dall’ex placido segretario, “di pensare solo alle poltrone”.
Non entro, né ora né mai in questa rubrica, nel merito delle scelte e delle contingenze politiche, accanirsi sul malato è troppo anche per un farabutto come il sottoscritto.
A interessarmi è l’idea che sta a monte.
La politica democratica funziona (funziona è un parolone, diciamo che funziona meglio di tutte le alternative sperimentate finora) perché mette di fronte modi opposti di vedere il mondo che si contrappongono, più il dibattito è vivo e più il meccanismo della democrazia si lubrifica.
Della polarizzazione che sta fagocitando la scena di casa nostra abbiamo già parlato ma la polarizzazione, che già etimologicamente prevede l’esistenza di due poli, è pur sempre meglio di niente.
Se un polo implode perché implode il partito che ha sempre fatto, al netto dei numeri e dei sondaggi, da capofila di quella visione del mondo le ipotesi sono due: o la base si riorganizza alla svelta e la contrapposizione riprende costante e perpetua oppure resta un polo solo e il conflitto è finito.
A qualcuno non dispiacerebbe, certo si tratterebbe di un suicidio (sull’istigazione rimandiamo la sentenza ai posteri) legittimo e perfettamente in linea con le regole del gioco contenute nella Costituzione.
Ho scritto spesso dello squallore politico e dello sciacallaggio elettorale che insieme alla guerra fra poveri e allo scaricabarile rappresenta lo sport più praticato in questo paese, ho sempre fatto del mio meglio per utilizzare a proposito le parole di indignazione più taglienti e bastarde del vocabolario ma tra il più squallido dei teatrini e la più efficace delle visioni unilaterali mi tengo stretto il primo, la conflittualità è più sana della efficienza.
E Sanremo che c’entra? Sanremo c’entra perché da Festival della canzone italiana è diventato, da una decina di anni a questa parte, il Festival dei commenti sugli outfit e sulle canzoni italiane.
Basta dare un’occhiata ai social per trovare conflittualità in ogni tweet, in ogni post, in ogni stories.
Conflittualità prima di tutto fra chi rivendica fiera la propria fedeltà di spettatore e chi a gran voce manifesta la sua intenzione di non guardarlo per nessuna ragione al mondo ma soprattutto conflittualità generazionale con giovani da una parte costretti alla clausura che si domandano come questa o quella cariatide possa continuare non solo a vivere ma addirittura a cantare e dall’altra boomers rassegnati e sciure imbellettate sempre pronte a puntare con indignazione l’indice accusatore verso l’Achille Lauro di turno.
Conflittualità ovunque quindi, buon segno direi, sintomo che il paziente Italia è ferito, dilaniato, cieco, sordo e ustionato ma comunque respira e confligge sulla politica e sulla musica leggera.
Guai ad abbassare la guardia però, già Bennato, a proposito di segretari e canzonette cantava “Gli impresari di partito/mi hanno fatto un altro invito/ e hanno detto che finisce male”.