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di Alessandro Monchiero

Eh sì, torniamo in arancione.
Pressoché certo, ormai.
Allora anche alla scrittura tocca adeguarsi.
C’è una scrittura – diciamo: più ungarettiana – per quando si è indaffarati e affaccendati nel normale srotolarsi della vita.
Una scrittura per quando si lavora.
E c’è una scrittura più quieta, posata, che si prende i suoi tempi, perché tanto di tempo ne abbiamo così tanto che non sappiamo più cosa farcene.

Lu Yu, ad esempio, poeta cinese del XII secolo, merita tempo.
E se i bar sono chiusi, i ristoranti sono chiusi, conviene versarsi un buon rum sulla poltrona di casa e imparare la lezione che ha da insegnarci, ovvero che tutto è arte, anche il non far nulla e guardare fuori dalla finestra. Il che può esserci utile in questi giorni.
Lu Yu non è quello che trovate su Wikipedia, nato il 733 a Tianmen, guarda caso proprio nella provincia dell’Hubei. Il Nostro arriva quattro secoli dopo e si sposa ventenne, nel 1145, con sua cugina Tang Wan. Innamoratissimo. Ma poi la storia prende un’altra piega, buon per noi.
«Purtroppo a sua madre non piaceva», ci racconta Giuseppe Montesano che me l’ha fatto conoscere in “Scrittori selvaggi”, temendo lo distraesse dalla carriera. Fortuna – o sfortuna – volle, che lei non potesse aver figli, cosicché la mamma ebbe buon gioco a dirottarlo su un’altra donna, dalla quale ebbe sette figli. Nonostante la scoppiettante fertilità, Lu Yu, dietro l’obbedienza ai voleri materni, non smise mai di rimpiangere la cugina per tutta la vita. Ma questo non influenzerà il nostro racconto. E da qui in avanti ce ne dimenticheremo e fingeremo di fregarcene bellamente.
«Fu in questo periodo difficile che conobbe Chang-Chi, un poeta di una discreta fama», di cui in vecchiaia Lu Yu scrisse: “Mi ricordo delle conversazioni intorno alla poesia sulla Montagna del tè. Nel cuore della notte appresi là il misterioso segreto: la grande arte è sprovvista d’arte”.
Alla morte del padre, grande collezionista di libri antichi e ufficiale dell’esercito, Lu Yu ereditò una biblioteca di tredicimila volumi, oltre all’arte della spada che apprese in durissime lezioni e la passione per i trattati di strategia militare».
A 29 anni cercò di entrare a corte come Letterato Laureato, ma a causa degli strascichi paterni – una certa viltà, si dice – venne allontanato e inviato in luoghi sperduti, affaccendato in piccoli incarichi stancanti non all’altezza del rango famigliare. Poi, l’arrivo di un nuovo imperatore lo fece richiamare a Corte, con un incarico di prestigio che gli valse il soprannome di “piccolo Li Po”, e lui, Li Po, lo potete trovare su Wikipedia, presentato come tra i massimi della Dinastia Tang e dell’intera letteratura cinese.

Ma qualcosa andò storto. «Lu Yu non amava le etichette e le maniere» ci dice ancora Montesano, e l’imperatore lo allontanò di nuovo. Lu Yu aveva ormai 40 anni e nel 1172 fu assunto come segretario da un poeta diplomatico incaricato di parlamentare con i popoli di frontiera. Viaggiò moltissimo, «portandosi dietro la spada e sognando di poter combattere: ma non ci fu nessun combattimento eroico e a Lu Yu rimase solo una gran delusione». Cominciò a frequentare sempre di più i taoisti, e il buddismo Ch’an che predicava il vuoto mentale come via della Salvezza: conobbe l’eccentrico Shan Kuan, una sorta di crudista ante-litteram, che gli insegnò a respirare in modo diverso e altre assortire cazzate su cui non è il caso di indugiare. Tre anni dopo, nel 1175, il poeta-funzionario Fan Cheng-Tu, lo chiamò ad assumere l’incarico di suo segretario: divennero amici, scrivevano poesie a quattro mani e soprattutto bevevano molto, moltissimo, insieme. Il che ogni tanto faceva pronunciare a Lu Yu inopportune invettive contro il governo che, nonostante il tentativo di proteggerlo del suo mentore, Fan Cheng-Tu, lo fecero per l’ennesima volta allontanare dall’incarico. Il Governo, nel sospenderlo e licenziarlo, motivò la sua decisione in virtù del “suo bere smodato e la sua mancanza di senso di responsabilità”.

L’anno dopo, per dirla prosaicamente col linguaggio attuale, Lu Yu si è finalmente rotto il cazzo: non vuole più nascondersi, ha 51 anni e decide di cambiare il suo nome con “il vecchio che fa solo quello che gli pare”. Ormai ha fastidio di svolgere qualsiasi incarico e quando tre anni dopo lo nominano “commissario del tè” durante una carestia, lui non trova di meglio che inoltrare all’Imperatore una petizione a favore del popolo sfruttato dai funzionari imperiali: va da sé che viene immediatamente sollevato dall’incarico e lo spediscono a fare il vice-magistrato, incarico che svolge con svogliatezza e fastidio, condendo i suoi giorni con una produzione copiosa di poesie. Ne pubblica duemilacinquecento e quando i suoi versi vedono la luce lui ha ormai 62 anni, e ha preso un curioso vezzo nel firmare le sue poesie: inserisce nel titolo di ognuna l’età che ha quando l’ha composta. Tipo: “il piccolo chiosco sul lago, 64 anni”, “il vento e la pioggia, 70 anni”, “Nella sala della tartaruga, piaceri vari, 75 anni”, eccetera…
A 64 anni entra a far parte dell’Ufficio dei Riti con il compito di riordinare libri e documenti, ma di nuovo è oggetto di censura, a causa del suo troppo bere. Le sue poesie non sono reputate consone alla serietà del suo incarico, sciocchezze da oziosi, puttanate disdicevoli, insomma…
Nel 1190 riceve un incarico dai monaci di un tempio taoista, e nel 1198 decide di non volere – e che non gli serve più – alcuno stipendio. Ha superato i 70 anni, da qualche tempo vive in una piccola capanna, scrivendo poesie come quella sopra citata: “Il Vento e la pioggia, 70 anni”:
Il vento e la pioggia non hanno smesso per tre giorni
Il vecchio decrepito non esce dalla sua stanza
Per distrarmi mi rallegro nei miei libri
Io e il mondo ci siamo dimenticati uno dell’altro
Intacco le castagne, dopo la brinata sono più grosse
Strofino un’arancia, con la rugiada è più profumata
Sul braciere si sta riscaldando un po’ di vino
Tutto questo basta a consolare la mia solitudine.

Questo scrive, con un’essenzialità che spolpa l’osso e tradisce la sua montante felicità, ebbra di vino e di un sano fottersene pressoché di tutto. «La sua poesia fiorisce in maniera straordinaria, la limpidezza e la musica che da giovane lo avevano fatto chiamare dall’imperatore “il piccolo Li Po” non sono andate perdute, ma il suo tono ormai non somiglia a quello di nessuno: è diventato essenziale, mentale e musicale ma allo stesso tempo concreto». Autentico. Non è più legato a niente, vivo e sveglio ma è come se galleggiasse senza voleri e senza scopi sull’acqua.
D E F I N I T I V O.

«Ora il vino non è più il piacere dell’oblio che lo distoglieva dalla carriera e dal successo mondano», è diventato condizione dell’esistenza vera. L’ebbrezza non è uno stravolgimento del corso naturale delle cose, ma una seconda natura in cui ritrovare la sua natura perduta. Per lui bere non significa essere ubriaco e basta, bere è un crocevia per staccarsi da se stesso, un’arte che serve a far sprofondare le apparenze. «Essere ebbri è la misura vera dell’agire, un gesto come scrivere poesie, che fiorisce nell’abitudine ma è imprevedibile, quotidiano ma senza noia».
Improvvisazione, 78 anni:
I piccoli fiori luminosi dei melograni della montagna abbagliano gli occhi /
Di tanto in tanto il rumore della prugna verde cade /
Sotto i salici vicino al ponte, sulla riva dell’Est, in piedi, appoggiato al mio bastone /
Assaporo il vento sull’acqua – disperde la mia ebbrezza della notte scorsa.
Ora è il perfetto discepolo del suo maestro Chang-Chi che sulla Montagna del tè predicava: “la grande arte è sprovvista d’arte”.

La sua è un’improvvisazione jazz, meno noiosa del jazz, che è solo autoreferenzialità. Sgocciola inchiostro attraverso il pennello sulla carta arabescando baffi, gocce e ghirigori. Non si cerca poesia. La poesia c’è, viene, trabocca, invade, tracima. Si scrive da sola, direbbero – sbagliando – i surrealisti, Dalì e compagnia sproloquiante.
L’ansia è dissipata. L’angoscia non è più il futuro che deve venire. «Lì dove c’era ciò che soffoca e ammala i desideri, c’è ora la vita. E questa vita non è diversa dalle poesie che la dicono, i versi non sono nient’altro che vita, foglie che volteggiano un attimo e cadranno fra un attimo».
Ma anche il cadere è vita.
Corsi e ricorsi, affinché ci si dia il tempo di far passare l’autunno.
Ché nessun autunno è eterno.
Ricordiamocelo. Soprattutto ora.
Sempre più vecchio, sempre più sorridente nei suoi versi, Li Yu ha il solo rammarico della povertà attorno, ché lui tutto sommato non ne è toccato. E’ felicemente ozioso, descrive e pennella la vita nei suoi versi scarni, essenziali, ma ha il tempo di accorgersi, prima di morire, che c’è chi di questo ozio muore. Non perché non sa goderselo, ma perché non ha di che mangiare. Ricordiamocelo. Soprattutto ora.
Lui beve, ancora molto, ma è sempre più desto, sebbene più anziano.
A 84 anni, «il vecchio che fa solo quello che gli pare» scrive che gli imbecilli si affollano a guardarlo entrare dal mercante di vini perché è vecchissimo e tremolante, ma che lui si sente il cuore di un bambino, e calzandosi il suo berretto sulla testa si trova a proprio agio dovunque».

«Tutto sommato la mia vita è perfettamente semplice e piacevole. Non avrò vissuto invano questo sogno nel mondo degli uomini» scrive un anno prima del 1210, quando quel mondo lascerà.
E’ una piccola storia di un piccolo/grande poeta di un millennio fa. Di un altro mondo con cui in questi giorni abbiamo avuto a che fare.
Che al di là del fatto che bevve molto – la qual cosa me lo fa ovviamente risultare assai simpatico – seppe descrivere questi nostri giorni meglio di altri. Giorni non tragici ma oziosi. Giorni non così drammatici come altri nella storia: ma i primi, nella nostra esistenza, in cui abbiamo dovuto convivere così tanto e così spesso con noi.
Lu Yu, 1125-1210.

La grande arte è sprovvista d’arte.
Rock and roll!

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