di Alessandro Monchiero (foto di Alberto Peroli)
Con tutta la stima e tutta la fortuna che auspico per Una Radio da leggere, il blog di Radio Braontherocks, al quale auguro la notorietà più diffusa possibile, non meno che planetaria, spero che Bastianich, Joe Bastianich, non si imbatta mai in questo scritto.
Niente di penalmente perseguibile, ma ci saranno, credo, alcuni passaggi controversi o degni di stizza o imbarazzo o boh.
Ma qui, partiti la scorsa settimana con Giovanni Lindo Ferretti, vorrei proseguire sulla strada dei “live” ai quali ho assistito oppure organizzato, e in questi giorni ripensavo con un divertimento un po’ appiccicoso, non scevro di disagio compiaciuto, a quel che cercherò di raccontarvi.
Il punto è che nel 2013 mi ero messo in testa – sapendo il Nostro folgorato sulla via del blues e quanto fosse più interessato alla musica che non alla gastronomia – di ospitare Joe Bastianich per un concerto al Boglione.
Ci furono telefonate e mail con una serie di individui il cui amico dell’amico del cognato era in contatto con Joe, e si combinò, non ricordo più perché, anzi, credo grazie a Dino Borri che lo frequentava abitualmente in quel di New York, d’incontrarci a cena al Ratanà di Milano con il sottoscritto e la mia fidanzata dell’epoca, Joe e moglie, Dino Borri, per l’appunto, e moglie.
Lì ci ritrovammo.
Sembrava l’inizio di una barzelletta.
C’ero io, il socio newyorkese del Boglione (Dino), sua moglie che avevo visto due volte nella vita, e “Diludendo”, che all’epoca era celeberrimo anche per l’eccezionale imitazione di Crozza ed era sulla bocca anche di quanti non ne fossero fan, a Mastechef, dove era di gran lunga il giudice più telegenico e divertente. Sia detto per inciso, senza di lui Mastechef è un minuetto di robottini C-3PO di Star Wars, telecomandati dalla regia, senza nerbo né anima. Che vi sia o meno interessato Masterchef anni fa o anche ora, c’è un Masterchef con Bastianich e uno senza. E oggi sembra doppiato in qualche lingua dell’est Europa degli anni Settanta per quanto è ingessato, astratto, costruttivista. Per paragonarlo a qualcosa di contemporaneo, sembra una trasmissione luccicante del Nord Corea. Dove i protagonisti si muovono ovattati e meccanici, impauriti che scappi loro qualcosa che non vada a genio a Kim Jong-un.
Non nego che ogni tanto io lo guardi nella speranza che irrompa Kim Jong-un e faccia una strage. Visto che non costa nulla sognare, spero sempre che cominci con Canavacciuolo. Ma questa è un’altra storia, più divertente di questa, ma più a rischio querela. Nulla che sia opportuno snocciolare, su un blog poco più che in fasce.
Comunque, si era ospiti di Cesare Battisti, patron e meraviglioso chef del Ratanà. L’inaudito Bosco Verticale, che oggi troneggia a picco sul dehors del ristorante del quartiere Isola, era ancora uno scarabocchio nella testa di Boeri, Barreca e La Varra che l’hanno poi immaginato e realizzato, e lo scopo di quella cena era a grandi linee cercare di convincere Joe a esibirsi senza svenarci al Boglione, perché queste erano le condizioni d’ingaggio che ci eravamo prefissati, ed era il massimo che potessimo offrire: poco o nulla. Insomma, cercavo il modo di dire nel modo più suadente possibile, e nel migliore momento possibile della serata: «Joe! Non sarebbe fantastico esibirti al Boglione? Parliamone».
L’incipit non fu il massimo, tanto che dovetti, poi, recuperare terreno per tutta la cena.
Col senno di poi non so perché mi uscii di ironizzare sul suo accento, celebrato da Crozza, che trovavo simpatico, nonché una delle chiavi della sua fama, ma non fu affatto apprezzato.
Pessima scelta.
S’irrigidì. Assai.
A pensarci oggi, più che comprensibile.
Però, ‘sti cazzi!
Quello era il mio colpo di cannone!
La simpatia del “Diludendo”.
Boooom! Sparato.
Colpo a salve. Buco nell’acqua.
Glu, glu, glu, affondavo a ogni portata.
Ero lì per convincerlo a suonare al Boglione e non stava andando per nulla bene.
Ero lì per convincerlo a suonare al Boglione, sebbene non sapessi nulla di nulla delle sue qualità canore e musicali, ma per me all’epoca – e ancora oggi – Bastianich era un’icona della contemporaneità. Un manifesto Pop. Andy Warhol sarebbe impazzito per lui. L’avrei voluto qui, a fare qualsiasi cosa gli andasse di fare. Ma speravo che se l’avessi stuzzicato sulla musica sarebbe stato più facile.
Trascorre la cena.
Passo al tempo presente del racconto per ragioni narrative.
Tu chiamale, se vuoi, questioni di climax.
Cesare ci coccola assai.
E i mondeghili, e le acciughe del Cantabrico e il risotto alla milanese e via discorrendo.
Tutti parlano inglese tranne me: Dino e la sua splendida moglie Céline, Joe e sua moglie, ed Elena, la mia fidanzata di allora. Tutti alla fine sterzano sull’idioma italiota per me. Per non escludermi.
Apprezzo.
Ma l’imbarazzo è a mille.
La possibilità d’ipotizzare un suo live al Boglione è prossima allo zero.
Ma poi accade il miracolo.
A fine cena Cesare ci chiede se vogliamo bere un rum.
E qui, come un interruttore, s’accende la mia solfa super-sperimentata sui rum.
E le colonie d’Oltremare, e i rum agricoli, e il Periodo Especial di Cuba e il Demerara, e la Guyana e blablabla. Joe mi ascolta attento, si fa trascinare sulle rotte dei Caraibi, ce ne portano a bizzeffe, ne tracanniamo assai, e un “full proof” bianco, acre di canna di zucchero non ammansita da botti europee, finisce sul pavimento.
«Questi non mi piaci».
Ok. Fai quello che vuoi.
Joe è diventato la persona più affabile e conviviale nella quale mi sia mai imbattuto.
Potere del rum della Guyana.
Senza dilungarci oltre, non ricordo quando e come ho rincasato quella notte.
In un albergo a due passi dal Ratanà.
Ma c’è che Joe Bastianich suonò al Boglione lunedì 16 settembre 2013, due mesi dopo quella cena. Per altro il giorno del suo compleanno.
Fece un piccolo tour di tre date, con l’ottimo Frank Cinelli & The Ramps, che annoverava Firenze, Milano e Bra. E anche questa sembra una barzelletta: “un tour di tre date, Firenze, Milano e Bra”. Per inciso, a Firenze e Milano il biglietto d’ingresso non era per nulla economico.
Da noi suonò gratis, sia per noi, sia per il nostro pubblico.
La serata più folle di sempre al Boglione.
Traboccante, dadaista, eccessiva, anche pericolosa per l’afflusso smodato di pubblico.
Scene che oggi non si potrebbero neppure immaginare.
Abbiamo fatto concerti francamente più degni.
Musicalmente più sofisticati e strutturati.
Spesso di fronte a quattro gatti, ché senza l’allure del nome noto non molti si sono fidati delle nostre scelte.
E tutti gli altri 168 concerti che abbiamo ospitato ci sono costati di più, da poco a molto.
Ma quella fu una sorta di apocalisse annunciata.
Necessaria, allora, escatologica, sebbene sproporzionata alla capienza e zeppa di tensioni.
A dimostrazione del potere disarmonico della TV, nel creare aspettative e rimodellare i nostri giudizi, totalmente sganciati dal merito.
C’era perfino una troupe di Sky a filmare ogni secondo di quella serata, con l’intenzione di montare un documentario sul volto meno noto di Joe, che quando ho visto in tv qualche mese dopo ho scoperto che s’interrompeva alle sette di sera e saggiamente occultava tutto quel che era avvenuto dopo. Un documentario di solo backstage, senza quel fulcro (il concerto) che ci si aspetterebbe. Capiamo perché. Sembrava Malebolge, “tutto di pietra di color ferrigno, come la cerchia che dintorno il volge”. Se mi sforzo riacchiappo difficoltosamente nella mente l’immagine di una legione di Uruk-hai che ingozzavano gli astanti con imbuti di tequila, inchiodando loro i piedi come oche da foie gras. Ma forse ricordo male.
Joe fu uno degli artisti più disponibili, perfettamente a suo agio in abiti di “presobenismo”, che si siano mai esibiti sul palco dell’Arena.
Fu un lunedì così eccessivo e sopra le righe che tutti quelli che vi parteciparono ne hanno un ricordo confuso. Affogato in una bolla d’esagerazione.
Vedi gli Uruk-hai. Che forse c’erano, forse non c’erano.
Talvolta re-inventato.
Shakerato.
Quasi romanzato.
Tutti tranne quella decina di amici che durante la notte mi scrissero e di cui lessi il messaggio al mattino, quando la sveglia suonò verso le nove come sempre.
Il succo dei messaggi era più o meno che dovessi a ciascuno di loro delle scuse per come mi ero comportato la notte prima.
Nel dubbio, e non ricordando pressoché nulla, risposi a tutti – sferzante – «mettiti in coda, non sei l’unico né il primo».
Col tempo, poi, abbandonata la stupida protervia dei postumi che mi sgocciolavano addosso, accaldandomi e bruciandomi le tempie, con tutti ho cercato faticosamente di ricucire, supino e genuflesso, perché avevano senz’altro ragione loro.
E fortunatamente ci sono riuscito quasi con tutte e tutti.
Quasi.