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di Alessandro Monchiero

Sì, è vero, di tempo ne ho, ne avrei, ne avrò.
Ahimè. Ahinoi.
Troppo tempo c’è toccato in sorte in quest’era contagiata, sottratta, sterile, sterilizzata, igienica, inquieta, che non sappiamo più che farne. Ne abbiamo sempre voluto di più, di tempo, salvo accorgerci che il tempo urla, sbraita, lacrima, stride: quando ci si accorge di lui, ci reclama a sé. E ci scuoia, sadico

Fanculo il tempo. Fanculo questo tempo.

Dunque potrei mettermi lì, di buona lena, a buttar giù qualcosa.
E lo farò.
Che sia una promessa o una minaccia non so, ma lo farò.
Ma dalla volta dopo questa. Non ora, non qui.

Perché oggi Robi mi è venuto a raccontare di questo nascituro blog della radio, e «vuoi scrivere qualcosa» e blablabla.
Certo che sì, ma poi. Dalla volta dopo questa. Non ora non qui.

Per adesso, Robi, voglio cominciare col riproporre, tale e quale, quanto ho scritto il 6 luglio 2018, perché finisce sempre che ci penso spesso in questo periodo. E se non me lo scrollo di dosso non sarò mai più in grado di scrivere qualcosa.

Non è tanto che ripensi a quel che ho scritto, ci mancherebbe, nulla di che.
Chi se ne strafotte di quel che ho scritto!
Ma come non farsi ostinatamente coccolare, ancora, ancora, e sempre, dalla normalità di svegliarsi un mattino, dopo un concerto, ed essere così inzuppato di ricordi da non potersene liberare, e aver voglia di raccontarlo un po’, dipanare la matassa, srotolare il gomitolo dei brividi, perché non evaporino le emozioni e col desiderio, necessario, di imbrigliare i ricordi prima che svaniscano.

Sai cosa mi mancano Robi? Mattine così.
Le mattine dopo i concerti che mi sono piaciuti.
Mattine in cui ci si risveglia stropicciati dall’alcool e dalla musica, e si ringrazia il creato di essere vivi.
Allora sarà per un’altra volta, Robi, prometto. Accadrà a breve.
Prometto che ti scriverò qualcosa di nuovo, volentieri.

Ma adesso lasciami sognare come se fosse la mattina del 6 luglio del 2018, quando nulla è ancora successo, e una pandemia mondiale è ancora un escamotage facilotto per un film distopico di infimo rango e io mia alzo, mi scrollo faticosamente da addosso le gocce di rum che mi imperlano la fronte, e ti racconto il concerto di ieri sera.

Eccolo qui.
Che bello poterlo fare

G R A Z I E.

Oh, sì, è il 6 luglio 2018 e comunque ieri c’era Giovanni Lindo Ferretti alle Lavanderie a Vapore.
Collegno, anteprima di Flowers Festival.
“Perizia Psichiatrica Nazional Popolare”, titolo dello spettacolo.
Quarantesimo anniversario della legge Basaglia.
Chiusura dei manicomi.
Fuori è come dentro.
Un colpo di genio organizzarlo.
O una follia imprudente.
O un colpo di culo, sebbene non lo sia mai.
Organizzare una cosa così implica avere la schiena dritta.
Foss’anche per posa, generalmente non si fa.
E invece è stata fatta.

400 posti a sedere ben presto trasformati in 200 posti a sedere e 200 posti vuoti perché il pubblico non ce l’ha fatta a rimanere seduto. E su “Spara Jurij” sembrava di essere a mollo in un sabba degli anni Ottanta un po’ commemorativo e un po’ no, perché avercene di occasioni così ostinatamente contemporanee. Tutto filava, tutto quadrava, non c’era alcuna distonia.
Era il 1985 e anche il 2018.
Senza mascherate, orpelli, finzioni.
Io son rimasto seduto, non so perché.
Per sabauda compostezza che pure non mi è propria o cronica indolenza, non importa, ma dentro mi ribolliva il sangue nelle vene. Mentre il caldo umido dello spazio chiuso tappezzava il mio corpo con gusto “animalier”, che nell’antica Grecia, era conosciuto come “zoote”. Tu chiamalo se vuoi leopardato, zebrato, tigrato, pitonato o addirittura mimetico.
Tumido mimetico non voluto.
Sudore spesso. Acre. Sofferenza. Gioia.

Tre pezzi prima della fine, Giovanni leggeva abbarbicato sul microfono un’esperienza da operatore psichiatrico al capezzale di una moribonda afona. La sua posa accasciata sull’asta ricordava certe copertine trash di Vasco, distillanti spossatezza. Non è un complimento ma così era. E fuori dalle vetrate in un tumulto di riverberi opalescenti il cielo si prendeva a cazzotti annunciando apocalissi epocali, alternando tutte le sfumature del giallo e del rosso: porpora, carminio, magenta, corallo, malva si intarsiavano nello zinco, nel lime, nell’ambra e nell’albicocca.
Tanto tuonò e lampeggiò che alla fine piovve. Tanto. Boooom! Non un temporale ma una deflagrazione del sistema cielo-terra. Una resa dei conti fra elementi dove l’acqua si prendeva il palcoscenico, incuneandosi in tutti gli interstizi di quella porzione di pianeta. A celebrare una notte unica per quei 400, di cui metà in piedi, che non avrebbero potuto essere più scossi di così. Una felicità attonita.

Per chi c’era e per chi non c’era, qualsiasi cosa si dica o si pensi, Ferretti rimane Ferretti.
E tutto il resto è noia.

«Ma chi cazzo lo sapeva, allora, cosa avrebbe davvero voluto dire noia?»

Alessandro Monchiero nasce a Bra il 30 agosto 1972 e lì rimane per 49 anni, in attesa di essere invitato a scrivere sul blog di Radio Braontherocks.
Nel frattempo si laurea in Storia dell’arte, lavora dal 1998 al 2008 per Slow Food, dirige la rivista dell’associazione e scrive di enogastronomia per varie testate nazionali come La Stampa, Specchio, Panorama e Il Manifesto.
Nel 2009, insieme a cinque amici, rileva lo storico Caffè Boglione di Bra, che tuttora gestisce con Enrico Bonura, per assicurarsi un’ampia e rassicurante riserva di superalcolici, in caso di un’eventuale pandemia mondiale. Soprattutto quest’ultima scelta, si è rivelata assai azzeccata.

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