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di Alessandro Monchiero

Non v’interessa il calcio e va beh.
Passate oltre, se volete.
Tutto (più o meno) bene finché non ne fate un vanto.
Non c’è nulla di cui vantarsi nel non amare il calcio.

Qualsiasi altro interesse, poi, qualsiasi esso sia, se malauguratamente non dovesse essere il calcio, è addirittura perdonabile, legittimo, necessario, purché ci s’aggrappi a qualcosa che punzecchi, pungoli, scuota, percuota, scombussoli, infogni, e soprattutto infoi. Tutto intorno avvizzisce per la noia lacerante dello svuotamento che avanza baldanzoso, arpionando le nostre membra una a una, per disporre una mano là, quell’altra un po’ più in là, la gamba destra adagiata lì e la sinistra mollemente affondata sul quel cuscino Ikea laggiù. Tutto intorno concorre a spalmarci, nutelleschi, fiacchi, pigri, prosciugati, inebetiti da ogni tecnologica comodità, nell’imperdonabile e ineluttabile colpa di non essersi fatti abbagliare/abbacinare/abbronzare, quando se ne aveva l’occasione, dalla bellezza ancestrale, tutt’altro che ultraterrena (anzi, più terrena di cosi si muore), di Carlitos Tevez. Uomo argentino. Calciatore. Molto più di un uomo. Moltissimo più di un calciatore. L’equivalente o forse superiore, sul rettangolo verde, a quel che è stato Clint Eastwoodsulle pellicole di Sergio Leone. Perché se solo una volta, nella vita, vi siete appassionati a Goya o all’uncinetto, alla ceramica o a Le Corbusier, alle dipladenie rosse sgargianti e guizzanti nei vasi sul balcone o al benemerito lardo di Colonnata, beh… tutto ciò non può non avere avuto a che fare col calcio. E dunque, nella peggiore/migliore delle ipotesi, con Carlitos Tevez. Perché Carlos Tevez sintetizza tutto il cinema di un secolo, tutta la letteratura di un secolo, e ovviamente tutto il calcio da quando è nato. E ne è al tempo stesso l’epitaffio. Quello che è venuto poi, chiamatelo come volete, ma calcio non è più. 

Le epoche, i tempi, non cambiano di colpo, sfumano uno nell’altro, e solo a posteriori gli si affibbia una data spartiacque. Tipo nel 476, con la caduta dell’Impero romano d’Occidente, finiva il mondo antico. Nel 1492, con Colombo e caravelle a zonzo nell’Atlantico, il Medioevo. E nel 1815, alla chiusura del Congresso di Vienna, il “moderno” cedeva il passo all’era contemporanea. Così abbiamo imparato a scuola. Ecco, il calcio come lo si conosceva un tempo, quel che è stato dalla sua invenzione fino al terzo millennio inoltrato, specchio dell’epoca com’è sempre stato dal suo apparire, non è più e non sarà mai più quello dei nostri padri, nonni, antenati assortiti. Anzi, vista la mia veneranda età, neppure quello al quale mi sono appassionato io.

Ma così come le epoche s’intersecano, si compenetrano, si aggrovigliano, s’incasinano, insomma, fra qualche secolo a qualche storico toccherà piantare una bandierina su questa fluida scorbutica contemporaneità, decretandone la fine. E ci sarà chi pigramente si accontenterà di una pandemia per trovare qualcosa di speciale, chi s’impunterà sullo shock delle Torri Gemelle, chi sulla caduta del muro. Ma è Carlos Tevez che fa ritorno all’Estadio Alberto José Armando, che tutti conoscono come La Bombonera di Buenos Aires, anno domini 2015, undici anni dopo aver lasciato il Boca e l’Argentina, davanti a sessantacinquesima spettatori, a segnare un prima e un dopo di un’epoca. E della storia che abbiamo chiamato fino all’altro ieri “contemporanea”. Ecco, da lì in poi, sarà il caso di trovarle un altro nome.

Basterebbe accennare che ad applaudirlo, dopo l’esilio europeo, dove ha fatto il bello e il cattivo tempo in Champions League, con il suo muso indio, sfigurato, cattivo, totalmente incongruo rispetto alla grazia violenta, pornografica, delle sue giocate (che De Sade è un’educanda al confronto), c’è un tal Diego Armando Maradona. Diego è là, completamente a picco sugli spettatori sottostanti per quanto si sporge dalla balaustra del suo palco d’onore. Strafatto. Ebbro. A torso nudo. Nella mano destra ha una sciarpa del Boca che rotea nell’aria facendosi cullare dai canti frastornanti della Doce, la curva del Boca Juniors, che saltella scuotendo e incendiando l’aria, dove spacciatori dalla sterminata e incommensurabile ricchezza mischiano i loro sudori con l’ultimo derelitto dei barrios di Palermo, Villa 31, Lanos… Sono un’onda tellurica senza distinzione di censo o classi. Ballano su cemento che ondeggia, mistico, su un asse terrestre che si sforza di non andarsene per i fatti suoi. 
Incredibile che il mondo, anche a distanza siderale, sopravviva a quest’onda d’urto. Ma l’Argentina no. Non c’è granello di sabbia che non ne sia scosso e vibri di epicità. E poi c’è il Barrio Ejército de los Andes, che però tutti chiamano Fuerte Apache. E che tutta l’Europa borghese e ricca è stata obbligata a conoscere, a prenderne atto dell’esistenza, dopo ogni gol di Carlitos, che ne esibiva orgogliosamente le stigmate sotto la maglietta impiegatizia del West Ham, dei due Manchester (City e United) e della Juve.

Perfino Maradona non se l’è sentita di fare da spartiacque a un’epoca. Per quanto indio, a sua volta, e non bellissimo, si era pur sempre “sporcato” con quell’immane indecifrabile grandezza. Fuori dal tempo, dunque non idonea a frantumarne lo scorrere. La sua grandezza, smisurata, certificava l’esistenza di un’epoca. La confortava nel suo non aver fine. Tevez no. Il più brutto di sempre o forse altrettanto brutto solo di Ribery o di Fusi. Ma Fusi non se lo ricorda neppure la mamma. E Ribery è pur sempre francese, e non foss’altro che per l’accento non può agitare animi, coscienze, e costringere alla genuflessione El Diez.

Larevolutionfrancoise” s’impolvera nei sussidiari, e la sua aurea è scarabocchiata di unghiate di fango, dei patetici gilets jaunes.
Tevez non assolda dentisti e lascia i denti marci dove sono.
Non s’aggiusta né nasconde la pelle bruciacchiata. 
Non baccaglia veline.
Mai stato al Billionaire, che manco sa cos’è.
Mette il cuore in tutto quel che fa, ma non tradisce il primo unico amore.
Più juventino degli juventini d’antan, nei due anni a Torino.
Mai visto nessuno muoversi con quella prepotenza Urukhai condita di leggerezza.

Eppure lui ha nel cuore il Boca, il suo popolo, il suo barrio, Fuerte Apache, e lì vuole spendere le sue ultime energie, anche a costo di scendere a patti sul cachet.
Il calcio, il secolo, il millennio, finiscono con lui.
Ultimo dei capipopolo. Tomato a casa per rendere onore a quel barrio dove «a volte stavamo giocando e cominciavano a sparare, i proiettili ci volavano sulla testa, poi ridevamo, ci guardavamo e scherzavamo: ti sei cacato sotto!»
Mentre intorno tutti gli altri calciatori entravano in sincrono con il nuovo millennio, si levigavano la pelle, si rinfoltivano i capelli, si sbiancavano e rintuzzavano i denti, per diventare aziende a sé. Mentre intorno tutti avevano un profilo Instagram, un curatore d’immagine, un manager con anelli, camicia hawaiana a non contenere la panza debordante e parrucchino fluente, da sfoggiare dondolante a Porto Cervo.

Tevez no.

Sebbene poi qualcosa vada storto. Fugge in Cina, per l’ultimo alito di calcio come dio comanda. Ma poi non c’è la fa, torna lì, in quel brodo primordiale senza seggiolini assegnati, tornelli all’ingresso, senza un abbozzo di sicurezza a scandire l’accesso a quell’inferno in terra che è lo stadio del Boca Juniors.
Passerà il tempo, s’affaccenderanno gli storici a spostare avanti e indietro il momento in cui il “contemporaneo” ha ceduto il passo a quel che è accaduto (accadrà) dopo.
E gira e rigira, alla fine, tutti s’accorderanno sull’ovvietà che dopo il Congresso di Vienna, nel 1815, che ha dato il “la” a quel che eravamo fino a poco tempo fa, all’epoca che noi viviamo, quella in cui Tevez non gioca più, bisognerà assegnare un nome nuovo, per distinguerla da tutto quel che c’è stato prima.
Rimane solo il rimpianto che Jorge Luis Borges, il più grande scrittore argentino di sempre, il più grande scrittore del Novecento insieme a Louis-Ferdinand Céline, non se lo sia goduto neppure un minuto. Sarebbe cambiata per sempre anche la storia della letteratura ma forse è meglio così: sarebbe stato francamente troppo. 

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