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di Robi Fortunato

Lo scorrere del tempo, al giorno d’oggi, nell’era della raccolta differenziata, abbiamo imparato a scandirlo sulla base della tipologia del rifiuto da lasciare sull’uscio di casa: lunedì sera organico e RSU, mercoledì sera plastica, venerdì nuovamente l’organico e via dicendo.

In periodi come questo, in cui uscire di casa per andare a fare la spesa può essere considerata un’avventura pari solo all’affrontare un branco di belve feroci in un’arena o lanciarsi in stile bungee jumping dall’Empire State Building, farlo (attenzione, solo con la testa e non più di un quarto di busto fuori dall’uscio!) per lasciare la tua personale collezione di rifiuti a chi di dovere, può anche scatenare alcune riflessioni come quella che vorrei condividere con voi attraverso queste righe e attraverso la scrittura, arte che mai mi è appartenuta ma che so essere usata parecchio da chi vuol lasciar traccia non solo attraverso il suono della voce… e anche perché la mia “erre”, scritta, suona decisamente meglio.

Ve le ricordate le strade prima del COVID19 tra le 20 e le 23 di sera?
In qualsiasi stagione dell’anno (tranne a Ottobre, a Ottobre fa tutto schifo) lasciare l’immondizia vicino alla porta di casa era comunque un’occasione per incontrare un amico di passaggio, per incrociare lo sguardo a volte terrorizzato, a volte complice, di una donna dall’altro lato del marciapiede o semplicemente l’occasione per essere investiti da un pedone frettoloso che manco ti chiedeva scusa… STRONZO!

Ecco, adesso no.

Adesso è il deserto, che in confronto le strade di un qualsivoglia paesino in provincia di Cosenza o di Potenza, appena dopo pranzo, sembrerebbero Tokyo all’ora di punta… E chi, come me, è di origini meridionali sa bene cosa intendo.

Detto ciò, quando, esattamente, ci siamo abituati (almeno, per me è così) a questa desertificazione urbana post aperitivo? Che sia zona gialla, arancione o rossa poco importa, dalle 20 in avanti Paul David Hewson alias Bono Vox potrebbe tranquillamente correre ma non di certo nascondersi così come recita nella primissima strofa di “Where the streets have no name”, canzone che ha ispirato questo mio primissimo esperimento di scrittura (l’ultima mia volta credo sia riconducibile al tema della maturità del giugno 1997).

“I want to run / I want to hide”

E mentre appoggiavo a terra il sacchetto dell’umido io me li sono immaginati: Bono Vox, David “The Edge” Evans, Larry Mullen Jr. e Adam Clayton… Gli U2.

Gli U2 sul tetto del vecchio mercato dei polli, quello che oggi è un parcheggio coperto (a pagamento sappiatelo) all’angolo tra Via Marconi e Via Verdi, proprio in fronte all’uscio di casa mia.

Bono si sporge in direzione del supermercato, The Edge, statuario come al suo solito e con lo sguardo che quasi non trapela emozioni guarda proprio verso casa mia, Larry, praticamente un cyborg, un automa alla batteria identico a 40 anni fa, suda copiosamente ma mentre suona fa anche la lista della spesa e poi Adam, bassista che non è mai stato talentuoso (ma tra i quattro è colui che ha sempre saputo divertirsi di più) sta già pensando a dove comprare dell’erba mentre “slappa” quelle tre/quattro note sul suo basso.

Gli U2 sul tetto del vecchio mercato dei polli che suonano solo per me come fecero nel marzo del 1987 a Los Angeles davanti a migliaia di persone incredule. Quel giorno presentavano l’album che li ha resi delle star agli occhi del mondo, “The Joshua Tree”, il tetto non era quello del vecchio mercato dei polli ma quello del Republic Liquor Store, tra la East 7th Street e la South Main Street.

Ma la canzone era la stessa che stanno suonando per me sul tetto del vecchio mercato dei polli, quella canzone che parla delle strade senza nome, strade che non ti fanno capire quanti soldi guadagna chi ci abita o in quale culto religioso crede colui che vive da un lato della strada rispetto a chi lo fa dall’altro.

Quella stessa canzone che quando la senti dal vivo ti fa esplodere il cuore in mille pezzi, che quando senti il riff introduttivo di chitarra di The Edge sai già che la voce di Bono sta per spezzarti le gambe per poi trasformartele in molle pronte a scattare verso l’alto. Quella canzone che canti a squarcia gola perché tu ce l’hai dentro più del tuo vicino di concerto, molto di più, fa parte di te. Quella canzone che ti fischia in testa per una vita fino a quando non ti rendi conto che è lunedì sera e c’è da mettere fuori l’organico e allora ti fermi, guardi il tetto del vecchio mercato dei polli e pensi:

“it’s all I can do…”

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